Qualche giorno fa è stato pubblicato in America il report Online Harassment, Digital Abuse and Cyberstalking realizzato dall’istituto di ricerca di New York Data & Society in collaborazione con il Center for Innovative Public Health Research. I risultati di quest’analisi ci mettono di fronte a un grande paradosso: sui social network e sul web in generale si tende all’autocensura proprio dove c’è maggior libertà di espressione, laddove è possibile scrivere cioè che si vuole, senza doversi limitare nella forma o nel contenuto. Il senso è chiaro: dove c’è maggiore libertà di espressione c’è anche maggiore “facilità” nel ricevere insulti, nell’essere aggrediti, nel veder invasa la propria privacy.
Secondo lo studio americano infatti, il 47% degli utenti avrebbe avuto esperienza diretta di abusi digitali: le donne ricevono maggiormente accuse e minacce di natura sessuale e maldicenze, mentre gli uomini ricevono insulti di natura personale. Le conseguenze di questi attacchi sono l’autocensura, sia da parte di chi riceve le offese (che non reagisce per paura di subire nuove minacce), che da parte di chi osserva, degli altri utenti che non intervengono nella discussione per paura di conseguenze che potrebbero ledere la vita personale e la carriera.
Si innesca così una spirale del silenzio che rischia di allontanare questi soggetti dai social network e spesso anche da opportunità professionali. Sparire dal web di certo non è la soluzione dunque: è chiaro che bisogna trovare una strada alternativa in grado di conciliare la libertà di espressione con il diritto alla privacy, arginando fenomeni come il cyberbullismo. Policy più severe da parte dei social network e l’utilizzo di un linguaggio moderato – che segua le stesse regole di un confronto faccia a faccia, dal vivo – potrebbero sicuramente metterci sulla buona strada.
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