La mia analisi su Prima Comunicazione di luglio 2019.
Con l’era digitale molte professioni sono sparite, molte di più ne spariranno e quasi tutte sono cambiate profondamente (basti pensare alla comunicazione, al giornalismo e alla politica). In tutto questo caos ne sono nate di nuove. L’influencer è una di queste. Nasce dal basso, persone comuni che parlano o mostrano Online temi di loro interesse, fashion, videogames, auto, moto, make up, e che progressivamente, lontano dagli occhi della generazione analogica, hanno accumulato seguiti oceanici. Colmano in qualche modo il vuoto lasciato dalla ritirata dell’editoria specializzata incapace di rifondarsi in nuovi modelli sostenibili nel mondo Online. Le aziende successivamente si sono accorte di questi soggetti consacrandone di fatto l’ascesa. Questo mondo patinato ed euforico è però giovane e incerto nelle definizioni, nei metodi e nelle metriche. In realtà sta scricchiolando da un po’ e vi sono alcuni segni che dovremmo approfondire.
Partiamo da un caso sintomatico di cronaca da cui estrarre dei punti chiave: @arii, al secolo Ariana Renee, è una ragazza californiana diventata famosa ordine nel 2016 grazie ad alcuni video su Musical.ly, l’app legata al social TikTok, e poi approdata su Instagram, dove oggi è seguita da più di 2,6 milioni di persone. Ani ha tentato, come molti, di trasformare il suo seguito virtuale in un guadagno reale, lanciando dal suo account il brand di T-shirt ERA, ingaggiando fotografi, make up artist e tutto l’armamentario per poter vendere le sue magliette. Dalla sua platea di quasi 3 milioni di follower sono arrivati solo 36 ordini. L’azienda che avrebbe dovuto produrre le magliette si è quindi rifiutata di procedere per un numero così esiguo. La ragazza stessa ha confessato il fallimento della sua operazione, per lei totalmente inaspettato, in un lungo post, poi cancellato. Cosa è successo? Perché non aveva neanche intravisto la possibilità di un flop così clamoroso? Quanto valgono davvero 3 milioni di follower? In questo caso la metrica stringente e senza scampo, vendite dirette, mette del tutto a nudo il problema.
Se una azienda avesse chiesto un post, probabilmente la metrica sarebbe stata nel numero di like e forse sarebbe stata addirittura soddisfatta. Nessuno avrebbe avuto il sospetto che, in fondo, non valessero quasi nulla. Chi non sa non soffre. Un primo punto del manuale ‘Influencer, maneggiare con cura’ potrebbe quindi essere: attenzione a come misurate gli obiettivi di campagna. Non accontentatevi dei like, non saprete né quanto valgono davvero né tantomeno se il like è al vostro brand o al vostro influencer. Questo mercato è caratterizzato da una grande immaturità analitica per cui è facile scambiare ottone per oro. E c’è molto più ottone che oro. Secondo punto: non è il seguito che fa l’influencer, tradotto non è sufficiente avere un’audience per avere una qualche influenza su di essa. Su questo punto c’è molta confusione: si guardano i follower o le visualizzazioni, ma non le reazioni o i commenti. Errore blu. V i sono casi di audience enormi in cui in realtà il 70% sono solo insulti (Engagement negativo). Vorreste associare a questo il vostro brand? Credo di no, ma è già accaduto e accadrà ancora poiché non è stata fatta alcuna analisi. Serve una mappa della reazione caratteristica che il soggetto suscita. In altri casi, al contrario, non vi è una reazione significativa, quindi la sua audience è inattiva o ha smesso di seguirlo effettivamente (Engagement freddo). Va analizzato il trend delle interazioni. Terzo punto è studiare quale aderenza c’è tra il contenuto trattato da un influencer e il brand che volete promuovere.
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