Se si mette in scena lo spettacolo del male cut

Nella tragedia greca la κάθαρσις (catarsi), era stata descritta da Aristotele come quel fenomeno per cui lo spettatore che assisteva alla rappresentazione del male viveva un processo di purificazione dalle proprie passioni, dalle proprie angosce. Vedendolo messo in scena, il male veniva in qualche modo sublimato e superato, razionalizzato.

Oggi la narrazione del male non sembra più funzionale alla cura. La messa in scena come presa di distanza e tentativo di razionalizzazione, lascia il posto alla pornografia del dolore, al voyeurismo, all’entrare dentro la rappresentazione di tragedie vere, che colpiscono nella realtà persone come noi. Proprio perché sono persone come noi. Si creano degli effetti che penso sia importante mettere a fuoco.

Primo: La distorsione della realtà causata dall’eccessivo spazio dedicato alla cronaca nera. In un periodo che solitamente va dalla notizia del crimine fino alla conclusione delle indagini si dedica al racconto un tempo sproporzionato. Prime pagine e aperture di tg che durano per settimane, talk in cui si sviscera ogni dettaglio, social su cui h24 rimbalzano le notizie vere e finte. Vivere nella bolla della narrazione del dolore inflitto, necessariamente distorce la realtà e crea una serie di bias cognitivi, di allucinazioni, per cui ad esempio fatti che sono individuali e singolari diventano generali, i femminicidi sembrano decine di migliaia e l’Italia sembra l’Iran quanto a patriarcato. Siamo una massa emotiva per questo è importante per non perdere la rotta essere rigorosi nell’informazione.

Secondo: assenza di limiti nel racconto, come la pubblicazione di dettagli personali, commenti su comportamenti e modi di essere delle persone coinvolte, dai parenti agli avvocati. Si scrivono vere e proprie sceneggiature con personaggi a tutto tondo. Il numero di coltellate, il tentativo di difendersi, l’agonia, sono funzionali alla scena. Una sorta di ultra reality, ed in effetti ne è la sua naturale evoluzione poiché cosa è più reality di un crimine appena accaduto? L’effetto di questa narrazione romanzata è portarci sempre più lontano dall’informazione e sempre più vicino ad una nuova forma di intrattenimento. Intrattenimento nero. Si sono lette intere pagine e commenti, anche di esponenti politici, sull’estetica della sorella di Giulia Cecchetin. Cosa hanno aggiunto alla conoscenza dei fatti? Nulla.

Terzo: Perdita del ruolo di guida dei media, avendo un livello editoriale dovevano porre un freno al caos dei social network dove guida solo l’engagement. E invece di normalizzare i social i media per sopravvivere adottano ormai le loro stesse logiche. L’informazione diventa intrattenimento. Dibattiti in studio con ospiti scelti per generare scontro. Perché la logica è l’engagement che come sappiamo si nutre di accordo e soprattutto di disaccordo. Ma questo porta ad una deriva moltiplicata perché si parte da più in basso e in rete si chiude il cerchio.  Assistiamo così ad esempio alla creazione di pagine inquietanti come “Le bimbe di Filippo Turetta” (poi chiuse, ma rimaste online per diversi giorni), piene di commenti sessisti, violenti, postati per lo più da account fake, dunque a fatica perseguibili.

Quarto: La Polarizzazione, la nascita di tifoserie e schieramenti. Visto che i protagonisti della vicenda diventano personaggi, di conseguenza si generano fan e detrattori di questa o quell’altra campana: chi sta con i parenti della vittima, chi li critica, chi attacca i genitori del carnefice, chi va contro l’avvocato. Questo clima di perenne conflitto tra parti si traduce poi nel conflitto stesso tra utenti che commentano la vicenda, assorbendo a loro volta quella tensione e mettendo in scena ulteriori scontri tra visioni opposte. Ecco come si inverte del tutto quell’elemento catartico di cui parlavamo all’inizio, arrivando alla situazione diametralmente opposta: il racconto del male diventa catalizzatore di aggressività da tifoseria e genera altra violenza.

Quinto: l’abbassamento del livello intellettuale. Dibattiti in tv o scontri social che siano, si procede per grandi categorie e generalizzazioni. Ad esempio la categoria del “patriarcato”, tirata per gli opposti estremi: da un lato come piaga connaturata allo stesso genere maschile, come un novello peccato originale, dall’altro diventa quasi un valore per cui avere nostalgia. Ad esempio nel manifesto affisso da Casapound in tutta Roma su Filippo Turetta (“Ma quale patriarcato? Questo è il vostro uomo rieducato”), il ricordo di una educazione forte che mancherebbe ai giovani di oggi, incapaci di accettare no e sconfitte.

Si sta perseguendo una china pericolosa. L’informazione si sta facendo intrattenimento. La responsabilità parte dai media che scimmiottano i social network. E doveva accadere il contrario.

Articolo pubblicato su Prima Comunicazione.